(Segue traduzione in italiano)
During the last edition of the Waterlines Project, students from the International College had the opportunity to meet Frank Westerman, an example of an innovative style of writing and storytelling. Born in 1964 in Emmen, he grew up in Assen and studied Tropical Agriculture at Wageningen University (the Netherlands), he works now as a journalist and creative writer. We had the pleasure to interview him about the main theme of this year’s Waterlines project: Exile and Identity.
Question: What fascinates you about a story when you are close to it as a subject for your art?
Answer: My idea starts from something I don’t know, like, “Do I believe in God?” or “How do stories develop and spread?”. Plus, I can only start writing when I have a form in my mind, like when I climbed Mount Ararat or when I went to see a lake in a remote valley in West Africa where life had been wiped out. So, once I am there I ask myself: can I turn the lake into a story? This part, which I usually call “form” is a necessary element for me.
What is your current project here in Venice?
I still don’t know what my current project in Venice will look like. I don’t know yet how this would fit into a book. It is still at a very early stage. However there are some interesting things that I have seen: for example, a copy of Sidereus Nuncios in Brera observatory in Milan (1610). Actually, the first telescope was invented in the Netherlands a year before! Moreover, I have also seen the campanilefrom which Filippo Tommaso Marinetti wanted to shoot the moon. I’m going to connect these two, the moon is the connection, the moon is still there. Giovanni Schiapparelli views of Mars are also interesting. He saw canals, double canals… he saw more than there actually was. The picture that Galileo drew and the pictures that Schiapparelli drew have in common the feature of seeing things that were not there. Second thing is the parallel between the Vajont dam and MOSE. I’d like to think about how humans build, because 14 people died while building the Vajont dam, and more than 2000 died because of the flood. We, humans build and then we die because we build these things. I want to reflect on men’s effort on building, because there is that moment, turning point, when the dream turns into a nightmare. Why does this happen?
Are you going to visit other places in Italy?
Yes, certainly. Villa Galileo in Florence and MOSE project in Venice.
How did your colonial past influence your work?
It is important not to look away from your own past, even though I wasn’t directly responsible for what happened. And my family was not a slave merchant or something like that. The hook inside houses in Amsterdam is the symbol of the past which reminds of the origins of the city, because the hook was used to lift products from the canal, which arrived from the colonies.
Considering Johan Galtung’s definition of “cultural violence” [those aspects of culture, of the symbolic sphere of our existence-emplified by religion and ideology, language and art, empirical science and formal science (logic, mathematics) that can be used to justify or legitimize direct or structural violence], do you think that the image of El Negro that you have described in your book, can be an ideal instrument that legitimizes a possible cultural violence against the other, such as nowadays immigrants or simply people with different skin color? And how can El Negro be conected to the white horse breeding?
I think the key when connecting the white horses and the stuffed black man exhibited it’s exclusive. If you breed a horse, race horses, what you do basically is to exclude the inferior from reproducing. Literally you look at young horses and you say: this horse goes to the butcher and this one has to reproduce. You exclude and you select. The selection is the key to creating an exclusive white horse. If you put the body of an african among the zebras and the baboons you exclude them from society and you confine them to the animal kingdom. So this is the basis of racism.
Nell’ultima edizione del progetto Waterlines gli allievi del Collegio Internazionale hanno avuto l’opportunità di incontrare Frank Westerman, un esempio di scrittura creativa dallo stile innovativo e storytelling. Nato nel 1965 a Emmen, cresciuto ad Assen ha studiato Agricoltura Tropicale all’università di Wageningen (Olanda), adesso lavora come giornalista e scrittore. Abbiamo avuto il piacere di intervistarlo riguardo al tema fondamentale di questa edizione del progetto Waterlines: Esilio e Identità.
Cosa la affascina di una storia quando la sceglie come soggetto dei suoi lavori
La mia idea inizia da qualcosa che non so, ad esempio dalla domanda «credo in Dio?» oppure da «come nascono e si sviluppano le storie?». Inoltre, riesco a incominciare a scrivere soltanto quando ho già una forma in testa: ad esempio, quando ho scalato il monte Ararat oppure quando sono andato a vedere un lago in una valle sperduta in africa occidentale dove era stata improvvisamente spazzata via ogni forma di vita. Una volta lì mi chiedo: posso trasformare questo lago in una storia? Questo tratto, che di solito chiamo “forma” è un elemento essenziale per me.
In cosa consiste il suo attuale progetto artistico qui a Venezia?
Non so ancora che forma assumerà il progetto che sto realizzando qui a Venezia. Non so ancora come queste idee potranno trasformarsi in un libro, siamo ancora ad uno stadio preliminare. Ad ogni modo, ci sono alcune cose interessanti che ho visto: una di queste è una copia del Siderus Nuncius (1610) all’osservatorio di Brera a Milano. Pensate un po’, il primo telescopio era stato inventato l’anno prima in Olanda! Ho anche visto il campanile da cui Filippo Tommaso Marinetti voleva sparare alla luna. Ho intenzione di connettere insieme questi due elementi, la luna è l’anello di connessione: la luna è ancora lì. Ho trovato interessanti anche le vedute di Marte di Giovanni Schiapparelli: ha visto canali, doppi canali… ha visto più di ciò che c’era in realtà. I disegni realizzati da Galileo e quelli disegnati da Schiapparelli hanno in comune la caratteristica di aver visto cose che non c’erano realmente. Una seconda questione è il parallelismo tra la diga del Vajont e il MOSE. Mi piacerebbe riflettere su come gli uomini costruiscono, perché 14 persone sono morte nella costruzione della diga del Vajont e più di 2000 sono morte a causa dell’inondazione. Noi esseri umani costruiamo e poi moriamo a causa delle cose stesse che costruiamo. Vorrei riflettere sullo sforzo umano che si fa nel costruire, perché c’è quel momento, quella chiave di volta, in cui il sogno si trasforma in un incubo: perché questo accade?
In che modo il passato coloniale del suo Paese ha influenzato le sue opere?
È importante non dimenticare il proprio passato, anche se non sono direttamente responsabile per quello che è successo. Nemmeno la mia famiglia è mai stata implicata nel commercio di schiavi o in cose analoghe. Però, ad esempio, l’uncino che si trova in tutte le case di Amsterdam è un simbolo di questo passato che ci ricorda delle origini della città, perché l’uncino era usato per sollevare le merci dai canali e queste arrivavano dalle colonie.
Considerando la definizione di violenza culturale di Johan Galtun, ovvero [quegli aspetti della cultura, della sfera simbolica della nostra esistenza esemplificata dalla religione e dall’ideologia, dal linguaggio e dall’arte, dalla scienza empirica e formale (fisica, matematica) che possono essere usati per giustificare o legittimare una violenza diretta o strutturale] pensa che l’immagine di El Negro che ha descritto nel suo libro possa idealmente essere uno strumento che legittima una possibile violenza culturale contro il prossimo al giorno d’oggi? E, poi, come può essere connesso El Negro con l’allevamento dei cavalli lipizzani?
Ritengo che la chiave, nel connettere i cavalli bianchi con El Negro si l’esclusività. Se allevi un cavallo o in generale cavalli da corsa quello che fai è molto semplicemente escludere gli inferiori dalla possibilità di riprodursi. Letteralmente osservi dei cavalli ancora giovani e dici: questo va al macello, quest’altro deve riprodursi. Escludi e selezioni. La selezione, infatti, è la elemento fondamentale che permette di creare un cavallo bianco esclusivo. Se metti il corpo di un africano tra le zebre e i babbuini, lo escludi dalla società e lo confini nel regno animale. Questa è la base del razzismo.
Nelle sue storie sono spesso presenti temi di interesse scientifico, che relazione intercorre tra il suo passato “scientifico“ (da ingegnere) e il suo presente “narrativo“ (da scrittore)?
Sono stato cresciuto in una famiglia protestante, ero abituato a leggere la Bibbia e a pregare con loro fino ai miei 18 anni. A scuola pregavamo ogni mattina e andavo in chiesa tutte le domeniche. Da studente poi ho perso la fede e ho iniziato a considerarmi una persona razionale: non mi piaceva un approccio nei confronti del mondo che non fosse razionale. Penso che questo si rifletta molto bene nel libro Ararat: si può guardare al Monte Ararat come alla montagna sacra dell’Arca di Noè, ma si può anche dire cose inaccettabili su Ararat. Come scrittore, sono piuttosto aperto rispetto a ciò che non può essere misurato e che può essere detto in modo poetico.