Lo scorso 11 aprile ho avuto il piacere di intervistare Ngugi wa Thiong’o, celebre scrittore keniota. La discussione ha toccato tematiche di ampio respiro, ma ha avuto un occhio di riguardo per un tema a Ngugi molto caro: la lingua. La questione sulla lingua – noi italiani lo sappiamo bene – costituisce un’istanza di lunga tradizione e sostanzialmente irrisolvibile, proprio a causa della natura mutevole dell’oggetto preso in questione. In quanto studiosa dantesca, ho apprezzato in modo particolare un intervento dello scrittore keniota, il quale ha paragonato la sua decisione di abbandonare l’inglese in favore del kikuyu, la sua lingua materna, alla scelta di Dante Alighieri di vergare la Commedia, l’opera che gli avrebbe assicurato l’alloro poetico, in fiorentino e non in latino. Non si tratta solamente dell’ennesima riprova che il nostro Poeta, a distanza di sette secoli dal compimento della sua opera maxima, costituisca ancora un’autorità riconosciuta a livello globale, ma di qualcosa di più profondo: Dante è riuscito a penetrare, conoscere e rendere fruibile categorie universali proprie dell’individuo indipendentemente dalle coordinate spazio-temporali. È questo il caso della questione sulla lingua. L’episodio citato da Ngugi è quello della tenzone di egloghe con Giovanni del Virgilio, in cui il giovane avvocato bolognese incita un Alighieri all’apice della sua carriera a scrivere la Commedia in latino: ci troviamo nel pieno del Preumanesimo e la scelta del fiorentino, seppur colto, per la composizione di un’opera di quella portata era considerata quantomeno inadeguata. Dante risponde a Giovanni del Virgilio per le rime: in un latino di gran lunga migliore rispetto a quello dell’avvocato intesse esametri estremamente colti e ricchi di richiami classici. Nella prima egloga responsiva Dante scrive:
[…] Cum mundi circumflua corpora cantu astricoleque meo, velut infera regna, patebunt, devincire caput hedere lauroque iuvabit.
[…] Quando i corpi rotanti intorno all’universo e gli abitatori del cielo saranno, come i regni inferi, palesi nel mio canto, mi piacerà cingermi il capo d’edera e d’alloro.
E ci riuscì, seppur non in vita – basti pensare ai ritratti quattrocenteschi del Michelino o del Botticelli, in cui il Poeta viene rappresentato con le tempie cinte di alloro. È ora interessante capire perché Dante abbia deciso di utilizzare il fiorentino. Nel suo De Vulgari Eloquentia, opera pioneristica e primo studio di carattere linguistico, egli sostiene, errando, che il latino sia una lingua artificiale, a differenza del volgare, lingua naturale e per questo motivo più nobile. Insomma, si tratta principalmente di una scelta stilistica, ma allo stesso tempo identitaria, se riflettiamo sul fatto che, a seguito del dichiarato rifiuto di qualsiasi altro volgare italoromanzo, la scelta ricade proprio sul fiorentino colto. Forse in Ngugi l’origine della scelta del kikuyu non coincide esattamente con quella dantesca: d’altronde la Firenze del Trecento non è il Kenya del Novecento e le esperienze vissute dai due scrittori sono ovviamente diverse. Ciò nonostante, vi è qualcosa che rimane: l’identità. Come Dante avrebbe voluto ricevere l’alloro poetico a Firenze, ovvero quella che rimaneva la sua città, nonostante l’esilio, scrivendo in fiorentino, Ngugi, memore di un passato coloniale, vuole preservare la propria identità e quella della sua terra natia attraverso il kikuyu, a costo di una diffusione della sua opera più macchinosa o limitata – prezzo, se ci riflettiamo bene, che si trovò a pagare anche Dante. Per arrivare così a una conclusione, vorrei chiudere questo breve intervento con uno spunto di riflessione: davanti a una realtà globale com’è quella attuale, è meglio omologarci alla cultura che detiene il potere economico e politico, o è forse meglio mantenere la propria identità, seppur nell’incontro con quella altrui? Riflettendo, ad esempio, sul caso italiano: la morte della varietà
linguistica a cui assistiamo ogni giorno, è davvero un segnale di cultura e alfabetizzazione, come voleva insegnarci il Fascismo, o è forse perdita culturale? Lascerei la risposta a Ngugi e a Dante: impariamo dai maestri.
Giulia Barison