In occasione del quarto appuntamento di Waterlines Project dell’anno, che ha visto ospite speciale Ngugi wa Thiong’o con la partecipazione dell’artista Senegalese residente a Venezia Moulaye Niang, abbiamo colto l’occasione per rivolgere qualche domanda a quest’ultimo. La figura di uno scultore del vetro di Murano, uno dei pochi rimasti, proveniente dal Senegal, ha certamente catturato il nostro interesse. Si è specializzato nella realizzazione di perle in vetro, ispirate ai colori dell’Africa. Il suo laboratorio non è difficile da trovare: è di fronte all’imbarcadero di San Zaccaria, e noi ci siamo infiltrati proprio lì.
Prima di iniziare la lettura, curiosate pure nel suo blog: http://muranero.blogspot.co.uk/
Cosa ti ha spinto a intraprendere una carriera tanto peculiare?
L’amore per il vetro. Sono arrivato qui, ho visto il maestro Constantini ed è stato un amore a prima vista.
Quale credi sia il punto di contatto fra l’arte africana e l’arte veneziana?
Le perle sono onnipresenti nella quotidianità in Africa. Ogni uomo e ogni donna, o per motivi religiosi o per motivi estetici, indossa perle; in passato inoltre servivano come moneta di scambio.
Mi chiedo quindi perché quelli che sono arrivati prima di me a Venezia non si siano approcciati a quest’arte. Le perle sono in realtà un qualcosa di molto vicino alla nostra cultura.
Come coniughi le tue origini senegalesi con una lavorazione di origine veneziana?
Come faccio per ogni altra cosa nella mia quotidianità. Quando cucino uso ingredienti di qua per fare piatti di giù. Lo stesso si vede nella mia musica: io faccio dell’afrojazz, con dei musicisti italiani. Mettiamo la base con ritmi africani e loro ci mettono i colori con la melodia occidentale. Con il vetro è uguale.
Ho fatto la scuola del vetro di Murano per imparare la tecnica, ma comunque mi esprimo come un africano, quello che sono realmente, e questo si riflette nelle mie opere.
Come vivi il rapporto con le tue origini africane, essendo comunque cresciuto in Europa e vivendo in Italia da tempo?
Se io arrivo qui con un bagaglio culturale e non ho subito la colonizzazione come peso, allora metto in primo piano la mia cultura. L’integrazione è sbagliata. Esiste l’interazione.
Non è perché l’Europa con la forza delle armi ci ha sottomesso, allora ha una cultura migliore e più interessante della mia. Nel rispetto della cultura europea, bisogna mescolare le due.
E’ curioso come in italiano, per passare dalla parola integrazione a interazione, si rimuova la G, che è l’iniziale di guerra.
(Risata) Hai ragione. Bisogna avere consapevolezza di se stessi prima; poi si può riconoscere e valorizzare la cultura dell’altro. Questo è arricchirsi.
Nella mia vita non mi son mai sentito di appartenere a una cultura o ad un’altra, per un motivo molto semplice. Sono cresciuto in Europa e quando andavo in vacanza in Africa, mi chiedevano quando pensavo di tornare a casa; quando ero a Parigi, lo stesso. Mi chiedevano quando sarei tornato a casa, laggiù.
Ora in Italia è la stessa cosa. All’inizio questo era un peso, con il passare degli anni ho capito che essere apolide è la cosa migliore.
Mi sento come gli uccelli, che sono qua e di inverno tornano in Africa. Si mescolano con gli uccelli locali e poi qualcuno resta, mentre qualcun altro torna. Perché gli uccelli non hanno il buono o il brutto passaporto, e mi hanno ispirato.
Ora ti senti più senegalese o veneziano? Perché?
In realtà non mi sento di appartenere a nessuna terra, io voglio appartenere a questo mondo.
Certo che sono veneziano: sono da vent’anni qui, parlo la lingua, conosco gli usi e i costumi e ho letto molti libri sulla storia di Venezia e ho tanti amici veneziani. Ma la stessa cosa può riprodursi in Sud America, chi lo sa. Non deve essere un limite, che è quello che poi si riproduce nelle persone.
Il loro limite è nella mente, perché guardano al mondo in base a un oggetto che è stato creato, il passaporto, e si fermano a guardare quello.
Mi piace la riflessione africana che dice “quando rifletti, manda la riflessione al cielo. Si polverizza e tocca tutto il mondo”.
Così voglio riflettere, pensando al Sud Africa, all’Australia, ai poli più estremi. Così la mia riflessione si arricchisce.
Ci spieghi il significato della scultura ispirata al lavoro di Ngugi?
Penso che sia ispirata al solito scontro generazionale. Spiego meglio: lui è un pacifista-ottimista.
La nostra cultura dice che la riflessione non deve avere né temo né spazio: la porti nel passato, serve.
La contestualizzi nel presente, serve ancora. La proietti nel futuro, servirà ancora.
Prendere un suo pensiero e pensare a un ponte come lui pensa di poter creare fra i popoli è molto difficile perché il mondo parla un linguaggio di violenza e nessuno riesce a definire correttamente l’Europea senza fare politically correct.
L’Europa è violenza e gli europei, inconsciamente, celebrano violenti ponendo le loro statue nelle piazze.
Bisogna creare tramite i popoli la possibilità di dialogo fra Europa e Africa.