Abbiamo intervistato Gholam Najafi, scrittore afghano arrivato a Venezia 11 anni fa, dopo un lungo “viaggio della speranza” e secondo protagonista del progetto Waterlines insieme a Deepak Unnikrishnan.

Gholam ci attende seduto serenamente al bar, sorseggiando un caffè. Abbiamo letto il suo libro, e ci aspettiamo che il volto di un uomo a cui la vita ha tolto così tanto sia scuro e rabbioso e che le sue parole consistano in una continua recriminazione. Eppure, Gholam non si lamenta, esprime solo un desiderio, quello di “essere libero”. Per essere libero, egli dice, ha bisogno di diventare italiano, e ce lo spiega citando Gramsci, Pirandello, Ungaretti, Pascoli…

Gholam, ormai sono diversi anni che vivi a Venezia, senti questa città come la tua nuova casa? E perché, se ora hai la possibilità di muoverti, decidi di rimanere qui e di non andare in altre città d’Italia o d’Europa?

Se io ora sono qui con voi, e rilascio questa intervista, dovrei ringraziare innanzitutto la mia famiglia italiana di Murano e la mia professoressa di lettere. Quando sono uscito dalla comunità che inizialmente mi ha ospitato, avevo ormai 18 anni e non riuscivo a trovare lavoro. Da piccolo, ho fatto il contadino, il pastore e il muratore, ma a Venezia non era più possibile svolgere queste mansioni, e all’epoca non sapevo ancora parlare l’italiano. Grazie a Dio in quegli anni ci sono state famiglie che hanno voluto accogliere alcuni immigrati a casa loro. Anche io sono stato ospitato da una famiglia, con la quale vivo tuttora, che aveva un negozio di vetro e un piccolo laboratorio, e così ho iniziato anche io a lavorare il vetro. Dopo aver frequentato 150 ore in una scuola secondaria di primo grado e aver preso la licenza media, iniziai con mia mamma a cercare una scuola superiore, ma poiché avevo già 18/19 anni, nessun istituto mi accettava. Sono riuscito infine a trovare un istituto alberghiero, il Barbarigo a Venezia, che mi ha permesso almeno di iniziare ad imparare un mestiere. Poi, ho iniziato anche a lavorare nel settore turismo, come facchino in un albergo. Studiavo fino alle 14, poi lavoravo fino alle 21 e poi fino a mezzanotte stavo nella biblioteca Querini a studiare.

Fino alla terza superiore, quando facevo i temi in classe, descrivevo la mia esperienza, ma i miei insegnanti non riuscivano a capire. I bambini italiani iniziano a leggere libri già da piccoli, ma io non avevo letto nulla, l’unica storia che avevo era la mia storia personale, ed essa non bastava per farmi promuovere a fine anno. Al primo anno sono stato rimandato, perché a studiare matematica ho iniziato qui a Venezia. In quarta superiore è successo qualcosa di strano e meraviglioso per me, ovvero ho cambiato la professoressa di lettere. Durante la prima verifica con lei, copiai tutto da wikipedia. Il giorno dopo la professoressa ci riportò i compiti corretti e sul mio scrisse “vergognati”. Io quel giorno mi sono spostato al primo banco e ho iniziato a scrivere ogni parola che usciva dalla sua bocca. Lei aveva un metodo di insegnamento per me perfetto. Alla fine, grazie a Dio, sono riuscito a terminare la scuola superiore e a iscrivermi all’università.

Perché non lascio questa città? Moltissimi miei amici mi domandano perché io non lasci l’Italia e non vada in America o in Australia. Io non posso lasciare l’Italia, e soprattutto Venezia, innanzitutto perché conosco queste persone meravigliose che mi hanno aiutato. Non penso che l’America sia migliore dell’Italia, e d’altra parte ormai ho studiato a fondo la lingua, la storia e la cultura italiane. Ho viaggiato anche in Germania e in diverse città italiane, ma Venezia rimane per me una città particolare, soprattutto per il suo silenzio, in particolare in alcune isole della laguna. Qui non ci sono macchine, c’è silenzio ed io mi sento lontano dalla tecnologia o dall’industria. Ormai Venezia è entrata in me.

Sono ancora a Murano con questa famiglia che mi ha preso in casa quando avevo 18 anni. Chiamo la mamma “mamma”, il papà “papà” e i loro figli “fratelli”, ma io non posso chiamarmi italiano per un problema di documenti.

Cioè?

Non riesco ad ottenere la cittadinanza, né per adozione, né per il fatto che vivo in Italia da più di 10 anni. Continuo a fare richiesta ma ci sono documenti che non è possibile ottenere. La mia famiglia ha fatto richiesta di adozione quando io avevo già diciotto anni, un caso mai esistito nella legge italiana. Nel giugno 2013 i miei genitori adottivi hanno fatto il giuramento, con cui hanno certificato che io ero loro figlio a tutti gli effetti. Tuttavia, non è possibile concludere il processo di adozione perché manca il certificato penale del mio paese d’origine, che dovrebbe essermi fornito dall’ambasciata afghana a Roma. Per ottenere questo certificato è necessario che io porti i documenti di mio padre. Ma mio padre, come il padre di molti altri immigrati afghani, non c’è più. Noi siamo nati senza documenti, è questa la realtà. Io potrei falsificare alcuni documenti, ma questo allontanerebbe la verità. Anche se volessi falsificare un documento per mio padre poi, come una carta d’identità, non so né quando sia nato né quando sia morto. E poi mi chiederebbero le sue impronte, ma le sue dita sono ormai consumate sotto terra. In ambasciata afghana, quando si vanno a chiedere i certificati penali, ci sono ragazzi che vogliono suicidarsi piuttosto di essere rimandati in Afghanistan, perché significa aver fatto anni di fatica per andarsene per niente – si rimane distrutti dalla delusione, e si finisce poi invischiati nella guerra o nella droga quando si torna in Afghanistan. Gli impiegati dell’ambasciata dovrebbero essere persone che abbiano studiato a fondo la storia del Paese e siano consapevoli della situazione.

Io ho fatto un passaporto afghano qui in Italia, non avevo alcun documento prima di arrivare qui. Ora questo passaporto non vale più niente, perchè ora ci vuole il chip. In ambasciata ora mi dicono che io non sono afghano, loro che mi hanno rilasciato il passaporto, loro che mi hanno dato una carta d’identità, ma come? Come devo trovare la mia afghanità? Quando Antonio Gramsci scriveva le sue “lettere dal carcere”, si chiedeva come poteva trovare la sua italianità, purtroppo sta succedendo la stessa cosa a me. Allora sono tornato in Afghanistan per fare un’altra carta d’identità, visto che quella che mi avevano fatto prima non valeva più, e mi hanno detto che avrei dovuto cambiare nome per fare un’altra carta d’identità, perché il mio nome attuale è già registrato nei loro registri. Ma se cambio il mio nome, dove devo lasciare la mia carta d’identità italiana e i libri che ho scritto, le cose che ho fatto e i diplomi che ho avuto? Devo bruciare tutto?

Adesso ho un avvocato, con cui intrattengo una fitta corrispondenza per risolvere questi problemi. Dal momento che non era possibile chiedere la cittadinanza tramite adozione, sono andato in prefettura per chiedere la cittadinanza visto che sono in Italia da più di dieci anni. Ho fatto richiesta online l’anno scorso, ma manca sempre il certificato penale, richiesto sia per l’adozione, sia per la cittadinanza dopo dieci anni di residenza, sia per il matrimonio. La prefettura, l’avvocato e l’ambasciata italiana sono tutti in difficoltà, e a me sembra di continuare ad attualizzare un pirandellismo. Tutti al giorno d’oggi dovrebbero studiare Pirandello, soprattutto i politici. Mi sento come il fu Mattia Pascal, privato della sua identità. Io nel mio villaggio ero una persona, avevo un nome, ed ora in Italia non sono più nemmeno afghano.

La Prefettura mi ha anche consigliato altre due opzioni, diventare apolide o richiedere asilo politico. Per dichiararmi apolide devo aspettare fino al 2020, perché quel passaporto afghano che ho preso nel 2008 è valido fino al 2020, e ovviamente per dichiarami apolide l’ambasciata afghana deve rilasciarmi una certificazione, altrimenti la prefettura non mi riconosce. Anche l’amico di Ungaretti, Moammed Sceab, l’egiziano che si suicida a Parigi, era un apolide. Lui aveva come me questo problema di identità e di apolidia, un problema che è sempre esistito nella nostra storia dell’immigrazione. Inoltre, non posso più chiedere asilo politico perché ormai i miei dati sono quelli che sono, dal momento in cui io ho detto il mio nome e la mia data di nascita quando sono arrivato in Italia e non ho richiesto asilo politico allora, io non posso più tornare indietro, non posso più cambiare quei dati. Ormai sono stato registrato così, i miei dati sono quelli, ed ora è la tecnologia che ci comanda, ed io mi sento prigioniero della tecnologia.

Il tuo status oggi è di…

Migrante minore non accompagnato. Anche ora che sono maggiorenne, quel che importa è il giorno di arrivo, il periodo di arrivo. Avevo 16 anni quando sono arrivato. L’altra mia opzione sarebbe quella di andare in Francia, a chiedere asilo politico in Francia, con un altro nome. Ma se cambiassi nome, dove devo lasciare tutta la mia storia fino ad oggi? Così, 11 anni di storia verrebbero cancellati, e io dovrei ricominciare di nuovo tutto da capo. Questa è la nostra vita, siamo sicuri che non può durare più di 120 anni, che abbiamo un limite, ma se continuo, nella mia vita, a cancellare e riprendere, come faccio? Ho già cancellato 16 anni della mia storia, quando sono arrivato in Italia, e ho iniziato a costruire una nuova storia ed un nuovo Gholam. Il mio nome, grazie a Dio, sono riuscito a non cambiarlo mai. Il nome me l’hanno dato i miei genitori, e non posso staccarmene, non posso eliminarli.

Desideri diventare cittadino italiano?

Sì, io ne ho il desiderio. So che non posso prendere la pelle italiana e attaccarla alla mia faccia, non è possibile. Desidero però che il passaporto mi renda libero: io mi sento in gabbia ancora oggi perché non posso nemmeno visitare mio fratello, che è a Londra, perché per farlo dovrei chiedere un visto, che ci mette mesi e mesi ad arrivare. Vorrei che questa cittadinanza mi rendesse libero almeno di viaggiare, tutto qui. Questo per me è tutto, perché uno che vuole scrivere vuole soprattutto la sua tranquillità, la sua libertà. Ma anche se avrò mille passaporti italiani, io non potrò mai essere italiano.

Al di là dello status legale, ti senti apolide?

Apolide… Io non tengo particolarmente alla cittadinanza afghana. Quello che a me manca è il villaggio. Uno scrittore iraniano dice che  noi usciamo dal villaggio, ma il villaggio non esce mai da noi. Questa è la mia storia. L’Afghanistan è stato creato artificialmente non esiste un solo Afghanistan. L’Italia è riuscita a trovare centocinquant’anni fa la sua unità, la sua stabilità e la sua libertà. In Afghanistan questo non è possibile, e quando nel mio libro dico che tra Afghanistan e Italia ci sono cento anni di diversità, intendo dire che ci vorranno almeno cento anni per mettere in piedi in Afghanistan una situazione di unità simile alla vostra, perché l’Afghanistan ormai è a pezzi. Prima di tutto deve trovare la sua unità, che non vedo possibile data la diversità di culture, religioni, lingue ed etnie. In Afghanistan ci sono i beluci, i curdi, i turchi, gli azara, i pashtun e gli indiani, ognuno con la propria storia. Quelli che hanno diviso l’Afghanistan probabilmente erano ubriachi, e non riuscivano a capire queste differenze. Quando parla, il presidente usa sempre due lingue, il pashtun e il dari [nome afghano ufficiale del farsi, ndr], e non c’è in realtà una lingua ufficiale.

Quali sono i ricordi più vividi del tuo villaggio?

Una cosa che ricordo è che avevamo asini, avevamo capre, avevamo mucche, avevamo una casa, avevamo una terra. Continuo a chiedere anche oggi, ai miei amici e anche a mia mamma: “Ma dove sono finiti quegli animali? Ci sono ancora? Hanno continuato a riprodursi oppure anche le generazioni degli animali sono finite, proprio come me, che sono l’ultima generazione della mia famiglia?”. Ho mandato un libro in pubblicazione a settembre, dovrebbe uscire entro Natale. Si chiama il Tappeto Afghano. Questo tappeto afghano, ricco di tanti colori, tanti disegni, rappresenta la storia del mio villaggio. Da noi la storia veniva trasmessa oralmente, non esisteva una biblioteca, non esistevano libri, e trasmettevamo oralmente anche alcune poesie.  Al tempo, gli adulti si riunivano in una moschea e decidevano come organizzare la primavera, come scavare un ruscello da dove prendere l’acqua e come coltivare la terra. Poi sono arrivati i talebani, e le cose sono cambiate un po’, ma prima era un mondo semplice, ed è a questo mondo semplice che io sono legato ed affezionato. Il nostro mondo di oggi è un mondo difficile, è un mondo arido per me, pieno di regole. Io non sono abituato a stare sotto queste regole, mi sento torturato dalle regole. Parli, devi parlare secondo le regole. Qualsiasi cosa tu faccia, devi farla secondo le regole.

Dunque sei partito dall’Afghanistan a undici anni, poi sei tornato una volta, come racconti nel libro, ma sei tornato ancora?

Sì, altre due volte. L’ultima volta sono andato anche a insegnare in una scuola superiore, perché la volta precedente avevo visto la situazione di difficoltà in cui versava la scuola in Afghanistan, e in cui versa ancora oggi. I bambini non hanno libri da consultare. Non è che sia riuscito a portare chissà quale aiuto, ho semplicemente riempito la mia valigia di quaderni, penne, matite. Il liceo Benedetti mi ha aiutato con € 300. Il reale problema in Afghanistan è che la mattina quando vai a lavorare non sei sicuro se la sera tornerai tu oppure il tuo cadavere. Purtroppo gran parte della realtà di oggi non viene raccontata. Nemmeno dai media internazionali o dai cosiddetti “corrispondenti di guerra”, che dicono che in Afghanistan si devono portare la cultura e la democrazia. Loro vanno in Afghanistan solo per diventare famosi. Per me, non bisogna portare la democrazia, basta che si tolgano le armi, e poi la democrazia si crea!

Per quanto nella parabola della tua vita tu abbia avuto delle belle soddisfazioni, si può comunque parlare di esperienze drammatiche. Le vivi come dei traumi o come qualcosa che ti è servito nel corso della tua esperienza successiva?

Quando viaggiavo, mentre lasciavo l’Afghanistan, ero in letargo, non riuscivo a capire, ero incosciente, ero una persona incosciente. Quando sono arrivato qui mi sono svegliato, mi sono guardato intorno. Dove sono? Perché sono qui? Come sono finito qui? Sono arrivato e piano piano, giorno per giorno, raccontando soprattutto alcuni particolari del mio villaggio, la consapevolezza è venuta fuori. Non dobbiamo dimenticare il nostro passato, ma dobbiamo usarlo per dare una prospettiva a quelli che arrivano dopo di noi. Perché l’Afghanistan ormai da quarant’anni è in guerra; quei poveretti che nascono oggi non devono fare viaggi terribili come il mio, devono avere un’identità, devono essere capiti dove arrivano e bisogna capire perché arrivano. Vorrei che non fossero costretti ad arrivare qui, perché credo che ognuno di noi stia molto bene dove è nato. Lo dice anche Giovanni Pascoli, con il fanciullino, no? Certamente la mia è stata un’esperienza che si è incisa dentro la mia pelle, e vorrei portare un cambiamento – almeno per iniziare posso lasciare questa intervista, perché venga letta da un sacco di gente.

 

3 pensieri riguardo “Intervista a Gholam Najafi

  1. Spero che Gholam riesca a risolvere i tanti problemi burocratici e psicologici che ha di fronte. Vero è che ha di fronte anche il rispetto, l’affetto e la stima di tanti che lo conoscono. Gli auguro serenità, e gli dico che può contare sull’amicizia di tanti. gb

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